Cinque sere per un totale di trenta ore di trasmissione e forse più, di… cosa esattamente? Cos’è che
tiene avvinti al Festival di Sanremo così tanti telespettatori da settant’anni a questa parte? Sì, vabbè,
sui social, in fila alla posta o davanti all’aperitivo tutti a ribadire “Sanremo, io? Mai guardato in vita
mia”, poi viene fuori che piazzati sul divano a televotare sono in dieci milioni (DIECI!) e
nonostante io stia alla matematica quanto un budino Elah alla Sacher, i numeri parlano chiaro.
Per cui sì, Sanremo alla fine “spacca”. Sempre.
Sarà per la sua strana alchimia da carrozzone, sagra, festa col trenino pepepepepepe, in un misto di
confortante tradizione ed elementi innovativi, un po’ come il tiramisù destrutturato o la parmigiana
molecolare.
Un gran lavoro, insomma, di questo bisogna dare atto. E come tutte le feste più o meno riuscite, un
po’ ci si diverte e po’ ci si annoia, in una broda rutilante e ridondate in cui ficcare un po’ di tutto e
dove i calzini di Amadeus si susseguono a momenti intensi e commoventi, come quarti di pollo sul
nastro trasportatore. Però si sa, uno può dedicarsi alla fisica quantistica, potare come si deve una
vigna o operare a cuore aperto, ma appena si siede davanti alla tv nazionale diventa “il pubblico a
casa”, con il cervello trasformato automaticamente in un grumo di Pongo, impermeabile a tutto ciò
che è una tacca sopra il modello base.
E in tutto questo si muove Fiorello, capace di surfare su polemiche, trash, papere e noia nell’unico
modo possibile: non prendersi troppo sul serio. Chapeau.
Le canzoni? Ah già, a Sanremo ogni tanto c’è pure quella cosa lì, però preferirei soffermarmi
sull’umiltà, i valori e l’educazione delle giovani leve, che magari dietro le quinte si sono fanculati e
piantati le dita negli occhi, ma sul palco sono stati davvero impeccabili.
So che farà un po’ vecchia zia, ma: bravi, mi siete piaciuti.
E comunque, cara inossidabile e meravigliosa Cinquetti, abbiamo ormai l’età per dire finalmente
quello che ci garba, o no?
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